di Gabriele Gabrielli *
“Il bisogno di rumore è quasi insaziabile, anche se talvolta il rumore diventa insopportabile”. È certamente, questa, una riflessione “contemporanea”. Viviamo infatti tra gli schiamazzi che accompagnano le nostre giornate intrise di rumori, traffico, squilli di telefoni e cellulari, chiamate di riunioni, spostamenti, aperitivi e caffè di lavoro, gli avvisi sonori delle e-mail che ci arrivano, gli alert inviatici dalle nostre agende elettroniche. Viviamo anche nel rumore e nella polvere che creiamo e solleviamo noi stessi per rispondere e gestire il numero crescente di interlocutori con i quali dobbiamo confrontarci tutti i giorni e nei molteplici contesti sociali a cui apparteniamo. Siamo quasi sempre alla ricerca di strumenti e “innovazioni” che consentano alla nostra “voce” di scalzare quella degli altri e di andare un’ottava sopra; nella società dell’informazione, del potere mediatico e della finanza “urlata” noi stessi e il business vanno gridati e “spettacolarizzati”. Le notizie, qualunque esse siano, vanno “strillate” e se non fai rumore “non ci sei”; e se non sei “in vetrina” cosa mai potrai vendere? Queste poche annotazioni descrivono – secondo la ricostruzione di molti studiosi – una delle caratteristiche più forti e preoccupanti della contemporaneità. La “vetrinizzazione” della vita e della cultura trova nella commercializzazione” di tutte le esperienze, private e pubbliche (ormai senza più confini), la sua implementazione più immediata, ricorrente
e quotidiana. Il rischio, tra i molti, è che ci si trasformi tutti in “brandelli di intrattenimento” e che la cultura venga frantumata in mille “frammenti decontestualizzati” che ci fanno perdere il senso delle cose, la visione di insieme e del progetto. In questo contesto, “il maggior timore di un’impresa è quello di non essere inclusa nelle reti e nelle relazioni che creano le opportunità economiche” (Rifkin J., L’era dell’accesso, Mondadori, 2000); è il timore, come scriverebbe Giuliano da Empoli (Fuori controllo, Marsilio, 2005) di non avere la “capacità di attirare su di sé l’attenzione del pubblico”, perché in mezzo al rumore “l’attenzione è una merce rara, infinitamente ricercata da tutti coloro che hanno qualcosa da vendere”. Preso da questo vortice mediatico e da questa “spettacolarizzazione” del business, spesso si ha l’impressione che anche il Management – alla ricerca di attenzione – strilli, schiamazzi, viva tutto in pubblico, metta “tutto” in vetrina. Il bisogno di rumore infatti è “insaziabile”; ma la riflessione da cui siamo partiti aggiunge che “talvolta il rumore diventa insopportabile”. Il rumore in effetti può diventare assordante; quando è così ti viene voglia di tapparti le orecchie e di domandarti: ma che “carnevale” è mai questo? Come e dove si può trovare quel silenzio capace di darci un po’ di ristoro e di attribuire senso alla nostra azione? Ho avuto modo di prendere in mano una bellissima raccolta di saggi di Massimo Baldini (Elogio del silenzio e della parola, Rubbettino, 2005). Ne ho letto con particolare avidità, spinto da queste domande,un saggio straordinario intitolato “Le dimensioni del silenzio”, già pubblicato in un volume del 1988, da cui ho tratto anche la riflessione di Carl G. Jung che ho proposto in apertura di queste note. Il silenzio e la parola, a ben vedere, non sono opposti. Scrive Baldini a tal proposito: “Chi ama il silenzio, ama la parola essenziale, la parola parlante e non parlata, la parola piena, la parola senza rughe”. Tutto questo a me pare molto bello, potente e ricco di proposizioni per l’azione e per il comportamento organizzativo. La suggestione allora è quella di guardare al silenzio non come rifiuto della parola, o come il suo contrario, quanto piuttosto come spazio o modalità “che schiude la via alla potenza del linguaggio”. La parola e il silenzio, infatti, come ci ha insegnato da tempo l’opera Pragmatica della comunicazione umana (Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D., Astrolabio, Roma 1971), sono entrambi elementi costitutivi di un processo comunicazionale. Riappropriamoci, dunque, con consapevolezza, di “tutto” il linguaggio manageriale, nella sua straordinaria e ricca interezza”.
- Direttore Executive MBA – LUISS BUSINESS SCHOOL