di Gabriele Gabrielli *
Molto spesso si legge sulla stampa o si ascolta nei dibattiti in televisione o alla radio che l’economia del nostro Paese avrebbe bisogno di una forte crescita della “produttività”. Sarebbe questo il vero “tallone d’Achille” del sistema produttivo; i suoi livelli più bassi rispetto alle altre economie mettono infatti in crisi la nostra “competitività”. Viene anche associato a questo tema –al di là delle questioni più strettamente economiche e industriali- quello della necessità di ricercare un maggiore coinvolgimento dei lavoratori al destino delle imprese. In altre parole, si sostiene che legare maggiormente i dipendenti allo sviluppo delle aziende accrescerebbe motivazione e orientamento ai risultati da parte dei collaboratori. Come fare? Ci sono molte leve che possono influenzare –come sappiamo- la motivazione e l’impegno delle persone. C’è lo stile del management, l’ambiente e il clima che si respira sul lavoro, il trattamento complessivo che viene riservato ai dipendenti, la situazione del mercato del lavoro e quella economica più in generale; infine, ma non meno importanti, le aspettative e gli interessi dei lavoratori stessi. Su molti di questi aspetti abbiamo già proposto qua e là delle riflessioni e altre ne proporremo strada facendo. A livello più generale e con riguardo specifico al tema proposto della produttività, comunque, lo strumento a cui con maggior frequenza le imprese ricorrono per legare i lavoratori più strettamente alle sorti delle aziende è quello della “partecipazione finanziaria”. Con questo termine ci riferiamo sostanzialmente a due diverse modalità attraverso cui si rendono variabili i salari e si incentivano i dipendenti. Da un lato, a quelle formule –contrattualmente stabilite tra sindacati e impresa- attraverso cui una parte del trattamento economico dei dipendenti viene legato all’andamento dell’azienda e, segnatamente, ai valori della produzione o a valori economico – finanziari. In questa formula –per dirla in un altro modo- vanno ricompresi tutti quei premi variamente denominati nell’esperienza (premi di risultato, di produttività, qualità, redditività, ecc.) che incentivano i dipendenti a un maggior impegno sul lavoro e al raggiungimento degli obiettivi assegnati perché una parte del loro reddito dipenderà proprio dall’andamento dell’impresa o dagli utili. È evidente allora come questi meccanismi aumentino anche il livello di partecipazione dei lavoratori alle sorti dell’impresa, accrescendone il legame e -come auspicato- un atteggiamento più cooperativo e meno conflittuale. Dall’altro lato, invece, abbiamo i “piani di azionariato dei dipendenti”, quelle formule cioè che assegnano ai dipendenti “azioni” dell’impresa. In questo caso, il vantaggio economico per i lavoratori deriverà dall’essere “socio” –e non più solo “dipendente”- e quindi dal valore del titolo e dagli eventuali dividendi che l’impresa potrà distribuire. Questo strumento, quello cioè della concreta applicazione e diffusione di schemi di partecipazione finanziaria, siano essi sistemi legati agli andamenti produttivi ed economici dell’impresa, siano formule di azionariato, è da molti auspicato ma ancora poco diffuso nel nostro Paese. O meglio; di accordi di salario flessibile, come quelli legati alla produttività o agli utili, ce ne sono e molti; anzi, potremmo dire che non vi è media o grande impresa che non abbia il suo sistema di “partecipazione finanziaria”. La questione però è che il valore economico legato a queste formule è ancora basso e, mediamente secondo gli studi disponibili, non supera il 5% della retribuzione globale del dipendente. Ne risulta piuttosto vanificata, quindi, in relazione a tale modesta entità, la spinta motivazionale del premio che per essere più potente avrebbe bisogno di un impatto ben più significativo. Ma anche in questo caso le questioni sono complesse e, oltre a qualche resistenza anche di carattere più ideologico, certamente non aiuta a diffondere questi schemi la forte instabilità del quadro economico. Come ha detto recentemente Guido Baglioni, il più noto e autorevole esperto dell’economia della partecipazione, “instabilità non fa rima con partecipazione”. Le continue ristrutturazioni degli ultimi anni, le fusioni e acquisizioni e la precarietà non hanno certamente facilitato un processo di diffusione e crescita di queste formule di coinvolgimento dei lavoratori. (*Docente Università Luiss Guido Carli – Fonte: La Voce della Vallesina)