gabrieele-gabrielli.jpg di Gabriele Gabrielli *

La vita media delle persone si sta allungando; la ricerca e i progressi nel campo della scienza e della medicina, da un lato, e le migliori e complessive condizioni in cui oggi possiamo vivere stanno consentendo –anno su anno– di far registrare miglioramenti a questo importante dato, indice di benessere e civiltà. Molte sono le implicazioni di questa “bella notizia” anche per i temi legati all’organizzazione e gestione dei luoghi di lavoro e delle persone che vi collaborano; implicazioni che richiedono una nuova e più complessa progettualità culturale e sociale come vedremo. La prima è quella indubbiamente più nota, perché coinvolge gli equilibri economico- finanziari dello Stato e delle istituzioni preposte a garantire prestazioni previdenziali adeguate a tutti i cittadini una volta usciti dall’”età del lavoro”; e quindi tocca gli interessi e le aspettative di ciascuno di noi. È un tema dibattuto con continuità e talvolta con asprezza almeno da oltre un decennio. La sintesi della questione è che se si vuole continuare a garantire una prestazione previdenziale adeguata alle generazioni future, quando queste non saranno più “attive” cioè sul mercato del lavoro, e tenendo anche conto proprio dell’allungamento delle aspettative di vita da cui siamo partiti, occorrerà intervenire nuovamente sulle norme che prescrivono diritti e doveri su tale materia. Insomma la buona notizia dell’allungamento della vita comporta maggiori costi previdenziali in quanto saranno certamente di più gli anni di trattamento pensionistico da pagare in ragione della migliorata longevità. Per dirla ancora in altre parole, la circostanza che avremo maggiori probabilità di invecchiare “bene” ci richiede di rinnovare i patti fra generazioni; e nel rinnovarli, di “riscriverli” fondandoli su valori solidi e duraturi. C’è almeno però un’altra implicazione dell’invecchiamento sull’organizzazione e sui contesti del lavoro che va qui richiamata, in parte legata anche alle considerazioni appena proposte. Questa è meno dibattuta -a livello generale– ma non meno importante della precedente e ci suggerisce diverse riflessioni. Vediamole in rapida successione. La migliore salute di cui godiamo significa anche che possiamo lavorare più a lungo. E qui c’è un’altra bella notizia; e cioè che anche le condizioni di apprendimento migliorano; si può continuare ad imparare infatti lungo tutta la vita ed è allora auspicabile che governi e imprese –come gli obiettivi fissati dall’Europa a Lisbona indicano- investano risorse in programmi idonei ad assicurino la crescita e l’aggiornamento delle persone e delle competenze “per tutta la vita” (lifelong learning). È vero, si potrà obiettare, che ci sono dei lavori che per le condizioni più pesanti in cui vengono fatti sembrano non poter essere ricompresi in questa logica; ma è altrettanto vero però che nell’”era della conoscenza” –e sempre più in prospettiva– questi lavori rappresenteranno via via percentuali più basse dell’occupazione e quel che più conteranno saranno le idee, le conoscenze e le competenze di ciascuno. Dobbiamo cominciare a pensare, insomma, che lavoreremo tutti più a lungo perché avremo tutti più salute “mentale e fisica” da poter mettere a disposizione per realizzare noi stessi e partecipare a progetti professionali. Ciò significa quindi che i contesti di lavoro dovranno abituarsi –e anche velocemente– a far convivere efficacemente giovani e meno giovani; neo laureati e anziani; esperienze e modi di vedere la vita, cioè, profondamente diversi ed egualmente legittimi e degni della massima attenzione. Dietro questa affermazione, facile da farsi e molto ben più difficile da praticarsi, si nascondono molte trappole e tante contraddizioni che si stanno gestendo per trovare nuovi modi di organizzare il lavoro e per valorizzare le
molte e articolate diversità presenti; anche quella naturalmente che deriva dall’età.

(* Docente Università LUISS Guido Carli – Fonte: La Voce della Vallesina)

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