L’ inno storico del Carnevale Offidano è il canto risorgimentale “L’Addio del Volontario” – (testo di Carlo Alberto Bosi con lo pseudonimo Basocrilo fiorentino) – scritto nel marzo 1848, presso il Caffè Castelmur (oggi non più esistente) di Firenze, ripreso successivamente dai giovani offidani al ritorno dalle guerre. Essendo un testo noto e tramandato a molti, fu cantato e suonato, durante tutti i periodi di Canevale fino a tutt’oggi.
Questa canzone fu scritta da alcuni volontari del battaglione toscano studentesco, iscritti all’Università di Pisa e Siena, che partirono per respingere l’invasione austriaca lasciando i libri e imbracciando i fucili, a Curtatone e Montanara il 28 e 29 maggio.
Per quanto poco romantico possa sembrare è il primo esempio di coscienza popolare italiana, dove una classe medioborghese parte per il fronte, professori e studenti accanto. Di questi (erano poco più di trecento) ne tornarono una manciata, per poi vedere la Toscana cadere nel 1849 con la presa di Livorno (16 maggio), operata dal Granduca che vendette tutto il Granducato per un milione di Svanziche. E’ conosciuta anche come “Addio mia bella addio“, “L’addio del volontario toscano“, o “La partenza del soldato“.
Nel 2011 fu presentata al Festival di Sanremo in occasione del 150º anniversario dell’unità d’Italia, cantata da Luca Barbarossa con Raquel Del Rosario.
Il testo ha avuto molte manipolazioni e varianti, ma quello più diffuso recita:
Addio, mia bella, addio, l’armata se ne va; se non partissi anch’io sarebbe una viltà ! Non pianger, mio tesoro, forse ritornerò; ma se in battaglia io moro, in ciel ti rivedrò. La spada, le pistole, lo schioppo l’ho con me; allo spuntar del sole io partirò da te. Il sacco è preparato, sull’omero mi sta; son uomo e son soldato; viva la libertà ! Non è fraterna guerra la guerra ch’io farò dall’italiana terra l’estraneo caccerò. L’antica tirannia grava l’Italia ancor io vado in Lombardia incontro all’oppressor. Saran tremende l’ire, Grande il morir sarà ! Si mora: è un bel morire morir per la libertà Tra quanti moriranno forse ancor io morrò; non ti pigliare affanno, da vile non cadrò. Se più del tuo diletto tu non udrai parlar, perito di moschetto per lui non sospirar. Io non ti lascio sola, ti resta un figlio ancor; nel figlio ti consola, nel figlio dell’amor. Squilla la tromba l’armata se ne va: un bacio al figlio mio; viva la libertà !
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