Tutti i giorni facciamo esperienza diretta di quanto sia cruciale la comunicazione per l’efficacia delle relazioni umane e per il nostro e altrui benessere. Quotidianamente infatti sperimentiamo situazioni in cui “non ci si è capiti” con qualcuno, o si è frainteso un comportamento o qualche gesto; si sono usati toni o modalità espressive che non ci sono piaciuti e che, potendolo fare, non ripeteremmo. Queste “esperienze di comunicazione” le viviamo in famiglia, sull’autobus, a scuola, quando chiediamo un caffè al bar o, con molta più varietà e continuità, nei luoghi di lavoro.
Qui l’intensità delle relazioni è forte e condizionata da una molteplicità di variabili, personali e organizzative, che quasi sempre non stanno nel nostro controllo. La comunicazione è tessuto e modalità organizzativa; è strumento di socializzazione e realizzazione personale. E abbiamo imparato da tempo che c’è una verità sociale ancor prima che organizzativa: ossia che non c’è possibilità di “non comunicare”.
Ci piaccia o no, la si voglia trascurare o valorizzare poco importa, questa proprietà del comportamento umano va accettata in tutta la sua semplicità e complessità. Come ci hanno dimostrato da tempo gli studi sulla comunicazione, la Scuola di Palo Alto e in particolare Paul Watzlawick “il comportamento non ha un suo opposto” e quindi, non esistendo “un qualcosa che sia un non-comportamento…non si può non comunicare”.
Ce ne rendiamo bene conto quando abbiamo a che fare con un collega “che ci tiene il muso” evitandoci o che non ci guarda in faccia quando lo incontriamo. O quando, è esperienza che capita con frequenza negli ambienti di lavoro, non si è mai chiamati dal proprio capo, a differenza di quello che succedeva soltanto qualche tempo prima o dei comportamenti che invece usa nei riguardi di altri nostri colleghi. In tutti questi casi, è evidente, si comunica eccome! Se anche il silenzio o gli occhi rivolti altrove assumono un significato nelle interazioni umane, figuriamoci allora quanto possano essere ricche di senso la parola, le modalità espressive e il linguaggio utilizzato.
E in effetti, è invalso nell’uso affermare che, al di là dei contenuti, “c’è modo e modo di dire le cose”; o che le cose, anche quelle meno piacevoli come per esempio dare un feedback non proprio entusiasmante, “bisogna saperle dire”. Siamo anche consapevoli che una cosa detta in una circostanza particolare o al telefono, piuttosto che durante un colloquio, può assumere significati o sfumature diverse magari perché disturbata dai “rumori” del mezzo o del contesto.
Lo studio della comunicazione umana, in realtà, può interessare la sintassi, ossia i problemi relativi alla trasmissione dell’informazione; la semantica, ossia le questioni che riguardano il significato; o infine la pragmatica, cioè gli effetti della comunicazione sul comportamento. Non si può dunque non comunicare; ogni comportamento è un messaggio e un veicolo di contenuti razionali, emotivi, sentimentali e così via. Anche il rimprovero o la severità cui ricorrono talvolta i capi sono ricchi di significato.
E possono essere anche un buon segno, a pensarci bene, perché l’esperienza ci dice che quando ci rendiamo conto di sbagliare e nessuno ci dice niente “vuol dire che siamo messi davvero male”. E’ questo uno dei tanti insegnamenti che ci ha lasciato Randy Pausch, il giovane professore americano diventato tristemente famoso per aver tenuto “l’ultima lezione” alla Carnegie Mellon University sapendo di dover realmente morire di lì a poco per un male incurabile, nel libro in cui racconta la sua vita e i suoi sogni [L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, Rizzoli, Milano 2008] .
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p align=”justify”>E aggiunge: “Chi vi critica, in realtà, vi sta facendo del bene e significa che si preoccupa ancora di voi”. Certamente, anche in questo caso, bisognerà poi scegliere il modo più opportuno… (di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli [ ggabrielli@luiss.it ])